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Giuseppe Guerini: "La solidarietà in campo contro il coronavirus"

Giuseppe Guerini: "La solidarietà in campo contro il coronavirus"
Il presidente di Confcooperative Bergamo e consigliere del Comitato economico e sociale europeo (Cese), spiega le iniziative di sistema messe in campo dal mondo cooperativo per sostenere le imprese, garantire i servizi essenziali e supportare le comunità durante l'emergenza coronavirus, ribadendo l'importanza di fare rete e delle necessità di un'Europa più unita

Categorie: Primo PianoDal Territorio

Tags: Confcooperative,   Europa,   Solidarietà,   Emergenza Covid

Riportiamo l'intervista a Giuseppe Guerini, presidente di Confcooperative Bergamo e consigliere del Comitato economico e sociale europeo (Cese), sulle iniziative di sistema messe in campo da Confcooperative Bergamo per sostenere le imprese, garantire i servizi essenziali e supportare le comunità durante l'emergenza coronavirus.

Consigliere Guerini, come sta vivendo queste difficili giornate?
"Sento una pressione molto forte, sia dal punto di vista della tensione lavorativa, sia sul piano personale ed emotivo. Vivo a Bergamo, quindi nell'epicentro dell'epidemia italiana e la sensazione di essere travolti e soverchiati dalla sofferenza e dalla grande quantità di persone morte ci opprime in un senso di continua inquietudine e impotenza. Ciascuno di noi conta tra i propri amici, colleghi o conoscenti qualche vittima: sia fra gli scomparsi, sia fra quanti lottano nei reparti di terapia intensiva". In quanto presidente di un'associazione di cooperative, in che modo si adopera in prima linea? "Dal punto di vista del ruolo che svolgo, mi trovo costretto ad affrontare in prima persona le tante emergenze che le imprese cooperative, che rappresento, si sono trovate a gestire a partire dallo scorso 23 febbraio, quando abbiamo compreso che il virus stava dilagando e abbiamo dovuto prendere decisioni in un quadro di grande incertezza, circa il comportamento da adottare per i tanti servizi che gestiamo. Le nostre cooperative a Bergamo occupano, nei servizi sociali e sanitari, oltre 9.000 lavoratori e gestiscono servizi di cura e assistenza domiciliare, centri residenziali e diurni per anziani e disabili. In alcuni casi abbiamo deciso di chiudere, ma abbiamo poi subito le minacce delle autorità locali che invece pretendevano la continuità dei servizi. Sono state ore di grande tensione. Poi nei giorni e nelle settimane successive è stato un continuo crescendo di tensione e ansia: la terribile e frenetica corsa a recuperare i dispositivi di protezione per le nostre lavoratrici e i nostri lavoratori, unita alla preoccupazione di dover garantire la continuità di alcuni servizi di cura e assistenza, con una scarsità di mezzi e strumenti, con la paura che gli operatori e gli utenti si potessero ammalare. Una paura che purtroppo, soprattutto nelle strutture residenziali per anziani, si è drammaticamente dimostrata reale e fondata".

Le cooperative quindi hanno continuato ad essere operative, oppure alcune sono state costrette a sospendere le attività?
"Infatti, oltre a questo fronte appena descritto, abbiamo poi dovuto affrontare la situazione delle tante attività che si sono invece gradualmente dovute interrompere: abbiamo cominciato con le scuole e le attività educative, poi via via altri settori hanno dovuto chiudere. Ci troviamo quindi con oltre 180 cooperative che hanno invece dovuto attivare "ammortizzatori sociali" per circa 2.500 persone e che ora sono molto esposte al rischio di non riuscire a ripartire: nel settore turistico e in quello culturale, la crisi si presenta come devastante. Ma anche le cooperative di trasformazione dei prodotti agricoli e quelle della manifattura. Come presidente di un'associazione di cooperative, quindi, mi trovo a dover far fronte da un lato alla crisi di chi è in affanno perché ha un carico di lavoro enorme nel settore dell'assistenza e dei servizi essenziali, con una forte esposizione ai rischi di contagio e dall'altro alla paura e alle tensioni di chi invece si trova senza lavoro".

Nella risposta alla crisi determinata dal coronavirus, che cosa ha funzionato?
"Quello che ha funzionato, almeno nel nostro caso, è stata la grande spinta solidale e la forte capacità di reazione delle comunità locali, delle associazioni di volontariato e di tutto il mondo delle organizzazioni sociali, che hanno realizzato cose straordinarie sia per la raccolta delle donazioni che per le attività che sono state messe in campo. L'abnegazione degli operatori sociali e sanitari è stata incredibile. Non solo medici ed infermieri, ma anche una grande quantità di educatori e operatori assistenziali, hanno assicurato servizi a costo di grandi rischi personali. E poi la mobilitazione generale. In 10 giorni nella città di Bergamo (ma è accaduto anche in altre città) sono stati allestiti ospedali da campo usando i padiglioni delle fiere e a realizzarli è stata una grande mobilitazione di volontari che hanno lavorato giorno e notte gratuitamente. La gestione sarà in gran parte assicurata da medici ed infermieri di Ong, mentre il finanziamento è stato sostenuto dalle donazioni. Sempre a Bergamo, abbiamo organizzato in pochi giorni l'allestimento di tre hotel, per oltre 300 posti letto, nei quali sono ospitati i pazienti dimessi dagli ospedali, non appena stabilizzati, in modo da poter liberare letti nei reparti. In questi hotel la cura dei pazienti è assicurata dalle nostre cooperative sociali. E' stato uno sforzo enorme ma è un servizio importante".

Che cosa invece non ha funzionato?
"Quello che non ha funzionato è soprattutto nei livelli istituzionali, che non hanno saputo adottare decisioni tempestive e chiare e non hanno saputo programmare né agire nell'emergenza con unitarietà di intenti: decisioni contraddittorie tra amministrazioni locali, regionali e Stato nazionale. Una burocrazia troppo preoccupata di affermare la propria sfera di potere e di proteggersi dalle responsabilità, che invece sono state in troppi casi scaricate sugli operatori. In misura diversa questo lo abbiamo visto in generale non solo in Italia e a Bergamo, ma un po' in tutti i paesi occidentali".

Come si spiega questo comportamento da parte dei diversi livelli di amministrazione?
"Credo che ci sia stata una generale sottovalutazione di quello che stava accadendo in Cina, un po' come se noi occidentali ci sentissimo superiori perché dotati di un sistema sanitario avanzato, con tecnologie altissime e ospedali modernissimi. Come se nella mente di troppi leader, ma anche di dirigenti di azienda e di cittadini, ci fosse la convinzione che lo stile di vita occidentale e la supponente presunzione di poter contare su ospedali e strutture sanitarie di alto livello ci avrebbe protetto. Nei primi giorni, dopo la comparsa dell'epidemia in Lombardia, si irrideva chi lanciava allarmi preoccupati. Forse la frase più emblematica di questo sentimento di 'superiorità' si può individuare nella famosa dichiarazione di un presidente regionale italiano che accusando 'i cinesi di curare poco l’igiene personale e di mangiare topi vivi' ha espresso un pensiero fin troppo diffuso in tutti gli strati della popolazione occidentale. In forme diverse questo atteggiamento è proseguito fino a pochi giorni fa anche tra altri leader politici in Europa e nel mondo. Gli ospedali, che forniscono prestazioni sanitarie straordinarie e innovative come trapianti di organi multipli e terapie oncologiche avanzatissime, si sono di fatto dimostrati fragilissimi rischiando il collasso per un'epidemia virale, che si sarebbe potuto contenere meglio tenendola il più possibile lontana dagli ospedali. Almeno qui a Bergamo, infatti, gli ospedali sono stati, loro malgrado, centri di propagazione dell'epidemia".

Come giudica le misure adottate a livello europeo?
"Mi metto fra quelli che sostengono che in questo periodo l'Unione europea e le sue istituzioni hanno fatto molto, seppure con fatiche e contraddizioni che conosciamo bene: dai meccanismi decisionali complessi alla eccessiva autoreferenzialità degli Stati membri. Mi pare che nell'arco di un mese Commissione europea e Parlamento europeo abbiano saputo prendere decisioni importanti e stiano mettendo in campo misure economiche che mai si erano adottate in precedenza. Quello che emerge è che per quanto l’economia sia fondamentale e per quanto le misure economiche messe in campo avranno un ruolo importante, sia per far fonte all'emergenza sia per provare a ripartire non appena l’emergenza si attenuerà, quello che manca ancora all'Europa è la possibilità di intervenire con strumenti, mezzi e poteri anche in altri settori oltre quelli della regolazione del mercato e dell'economia".

Abbiamo quindi bisogno di un'Europa più unita?
"Appare evidente che abbiamo ancora più bisogno di Europa. E' come se un giorno ci trovassimo gravemente ammalati e qualcuno ci potesse aiutare solo dandoci del denaro o lasciandoci la libertà di correre all'ospedale, ma invece non possa in nessun modo occuparsi direttamente di curarci o proteggerci. Sappiamo tutti, infatti, che per curarsi i soldi sono importanti, ma se ti danno soldi e ti trovi in un deserto non ti puoi certo curare assumendo denaro. Credo che l'enorme crisi provocata dall'epidemia ci dica che se vogliamo davvero un'Unione europea, dovremo saper andare molto ma molto più in là del mercato unico e dell'unione bancaria e monetaria per guardare realmente ad un'Unione di Stati che facciano politiche continentali coordinate e unitarie".

Come possiamo essere utili tutti noi e quale tipo di aiuto occorre?
"Quello che possiamo fare è continuare ad investire nell'edificazione di un ideale di Europa unita, promuovendo sempre la cultura della solidarietà e dell'integrazione, cercando di contrastare egoismi e chiusure, perché appare sempre più evidente che nessuno si salverà da solo e che la drammatica alternativa alla solidarietà e alla reciproca e mutuale condivisione di una "Comunità di destino" dell'umanità e dell'Europa sarà una degradante e disperante caduta verso l'inferno di nuove guerre".

Ha percepito un senso di solidarietà nei confronti dell'Italia?
"Abbiamo sentito molta solidarietà da parte delle reti di relazione sociale, ad esempio tra le organizzazioni dell'economia sociale, abbiamo avuto testimonianze importanti di affetto e vicinanza da amici e istituzioni di tanti paesi. Anche da parte di colleghi del Cese ho ricevuto preziosi messaggi di vicinanza. Peccato invece percepire a volte alcuni sprezzanti giudizi negativi da parte di alcuni politici di Stati europei, che non hanno perso tempo per criticare l'Italia e per portare avanti politiche egoistiche e ottuse, anche rispetto al potenziale ruolo dell’Unione europea... ma purtroppo questo non è diverso da quello che fanno molti politici italiani, capaci solamente di criticare o di strumentalizzare questa situazione di crisi per opportunistici calcoli politici e per ricercare facili consensi tra la popolazione impaurita e disorientata. Direi quindi che anche in questo caso c'è un'Europa e un'umanità solidale e resistente, che sa aiutarsi e costruire, e poi ci sono gli sciacalli e gli opportunisti che nelle situazioni di crisi e di guerra cercano meschinamente di ottenere qualcosa a loro esclusivo vantaggio".

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